ESCAPE='HTML'

Playback

 ESCAPE='HTML'

Basi

 ESCAPE='HTML'

Playback

Per ricevere gratuitamente le basi del Musical, basta farne richiesta via mail.

Un racconto "retrò"... IL CANDELABRO D'ARGENTO

     Era veramente un bell'oggetto. Lucido, completamente d'argento, costruito circa nella seconda metà del settecento: ed era lì, in bella mostra sulla mensola di un'enorme caminetto spento, testimone diretto di un passato di fulgidi splendori.
Ora di quel passato non restava che quel candelabro d'argento; e quei due occhi rassegnati che lo stavano rimirando lo sapevano bene.
     Il conte Talini si alzò dalla sedia: sapeva benissimo che un qualsiasi antiquario lo avrebbe pagato una cifra da capogiro, forse anche cinquecento lire, ma la sola idea di potersene disfare lo faceva star male.
     Ora era nelle sue mani, e lo accarezzò come aveva sempre fatto fin da quando era piccolo: provava per quel candelabro un sentimento particolare, come se non si trattasse di un oggetto freddo, inanimato, ma di qualcosa di unico, capace di trasmettere forti emozioni.
     Aveva perso tutto.
La villa, i trenta ettari di terra. Tutto svanito, bruciato dallo sfarzo eccessivo e dal gioco.
Oramai il termine concesso dai nuovi padroni della villa era scaduto: sapeva che l'indomani mattina sarebbero venuti, e sapeva che lui non si doveva far trovare lì.
     Non aveva un posto dove andare, anche perché non lo aveva mai cercato: credeva fermamente nel destino, e se il destino aveva voluto così, significava che doveva esserci un fine a tutto questo.
     L'idea del suicidio non gli era nemmeno passata per l'anticamera del cervello; non che fosse troppo codardo, tutt'altro: pensava che ci volesse molto più coraggio ad affrontare quella realtà che non a piantarsi una palla in testa.
Eppure era così di moda! Non passava anno che almeno un paio di nobili non si ammazzassero, soffocati dai debiti e dal disonore.
     Almeno lui debiti non ne aveva.
Aveva venduto tutto, pezzo dopo pezzo, dai bicchieri di cucina al meraviglioso lampadario di Murano del settecento; infine anche la villa, per pagare un debito di gioco contratto in una sera di lucida follia.
     Ma non si era mai pentito di nulla.
     "La strada della vita è fatta per essere percorsa più lentamente possibile, assaporando tutto ciò che ti offre senza tirarsi mai indietro."
Questo era il suo motto, e gli sarebbe stato fedele fino in fondo.
     Quanti amori aveva avuto il conte Talini! A contarli tutti non sarebbe bastato un diario.
     Quando era giovane, le donne erano attirate dai suoi soldi e dal suo casato; erano cadute nelle sue braccia con l'intenzione di accaparrarsi un patrimonio così considerevole, e tutte avevano miseramente fallito.
Verso i quarant'anni, la fama del conte di donnaiolo incallito ed amante eccezionale aveva fatto il giro dei salotti di tutta Italia, attirando nobili gentildonne in cerca di nuove emozioni.
Poi si era fermato: aveva finalmente trovato la sua anima gemella, una certa Luisa Matteoni, modesta sartina nella città di Empoli.
L'aveva sposata, e nonostante i trentaquattro anni di differenza di età, il loro era stato un amore folle.
Questo idillio era durato sei anni, e non veniva mattina che Luisa non trovasse sul comodino tre rose rosse.
Avevano girato l'Europa insieme, il conte, la contessa e lo chauffeur; ma poi lei se n'era andata.
Con lo chauffeur, naturalmente, un giovane ben piantato di origini campane, che il conte aveva sempre trattato come un figlio.
E per di più si erano fregati la macchina.
     Ma il conte era forte, e nessuno avrebbe saputo dire ciò che provava veramente, visto che aveva ripreso la sua solita vita: comprò un'auto nuova, e disse a tutti che l'aveva pagata risparmiando sulle rose.
     Si sa che la sfortuna quando trova dimora difficilmente cambia residenza, e così in capo a cinque anni il conte Talini aveva perduto tutto.
Naturalmente gli amici non si erano più fatti vedere, e lui era rimasto solo in quell'enorme villa immersa nel parco, aspettando un qualunque segno del destino.
     Ma ormai era tardi.
Ancora poche ore lo separavano dall'alba, quella triste alba che avrebbe visto un nobile finire in mezzo alla strada.
Aveva ancora il candelabro tra le mani, e con un moto di stizza lo strinse forte, torcendolo.
La base girò con uno scatto secco, e cadde per terra portandosi dietro un sacchetto di pelle alto circa dieci centimetri, che era stato inserito (chissà quando e chissà da chi) all'interno del candelabro d'argento.
Il conte Talini raccolse il sacchetto, ne aprì la cucitura superiore con un piccolo coltello che portava sempre con sé, e ne estrasse dodici diamanti di una grandezza e una purezza mai visti.
Valevano milioni!
Il conte cominciò a saltare, urlare, ridere, piangere: non poteva credere che stavolta la sfortuna era sconfitta, scacciata, morta e sepolta per sempre.
Poteva finalmente ricomprare la villa, i bicchieri di cucina e il lampadario di Murano; poteva riavere donne in quantità e passare le notti al Casinò; a sessantatré anni suonati si sentiva come un diciottenne, ed aveva ritrovato tutto il suo leggendario entusiasmo.
     Ma si sa, un cuore logoro e malandato da tante notti in bianco e tante emozioni può giocare brutti scherzi.
     Lo trovarono i nuovi padroni della villa, la mattina seguente: era lì, sdraiato vicino al grande caminetto, serenamente addormentato in mezzo a una manciata di ricambi di vetro del vecchio lampadario di Murano.
     Va tutto bene così, Conte Talini.
La morte ti ha risparmiato un'altra delusione.